Il cortile è buio, avvolto nel silenzio. “Scusami da dove si entra?” Luci basse, oblique, elettriche e tendenti al grigio, contorni definiti.

Muri fatti di mattoni a vista, ombre allungate, qualche sparuta lampadina e un’atmosfera fatata che pare avvolgermi. L’aria è fredda, ma non gelida e, da qui, i rumori del classico sabato pomeriggio milanese appaiono distanti, assenti.

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Bici dappertutto: buttate l’una sull’altra apparentemente senza logica eppure disposte in modo tale da disegnare un corridoio che si snoda in una doppia curva che indica la direzione da seguire.

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Scorgo due ragazzi accanto a una porta: ci guardiamo in un saluto che sa di intesa. Non serve altro. Aprono, mi fanno entrare e lo spettacolo può cominciare. Bicycle Film Festival, Milano, Lambrate, edizione 2013. Si presenta così, sotto forma di una sala allungata e brulicante di voci. Parole dette sottovoce e teste che dondolano e si allungano per riuscire a godere di una visuale migliore.

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Gente dappertutto, almeno venti file di posti tutti pieni, tende scure ai lati e, in fondo, una gradinata buia e dagli scalini piuttosto ripidi. Risate e sguardi d’intesa, sguardi attenti e occhi che brillano in un baluginare di telefoni che si illuminano e di whattsapp scambiati furtivamente.

Applausi. Sinceri, mai di maniera.

Storie, alcune divertenti, altre toccanti. Come quella di una mamma spagnola che, intervistata, racconta dei propri figli gemelli. Ha gli occhi stanchi, i lineamenti vagamente appesantiti e più di un filo di capelli bianchi. Racconta e, all’inizio, tutto sembra normale. Poi, in realtà, di normale c’è poco: uno dei ragazzi è senza una gamba. Eppure salta, pedala, gioca e affronta la vita in una lezione che tutti dovremmo mandare a memoria.

Titoli di coda e subito un nuovo inizio.

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Voci dalle mie spalle: “Ecco, questo è il film di cui ti parlavo, fa troppo ridere”. Un commesso a fine turno, in un emporio sperduto chissà dove. Serve la ragazza dei sogni e, una volta in macchina, malinconico, si rimprovera perché non la vedrà mai più. Il destino però ha scelto diversamente. La ragazza riappare, priva della bici con cui era arrivata al negozio: gliel’hanno rubata.

Il commesso esulta, non gli sembra vero: è l’occasione della vita, quella che aspettava. Eppure non sempre tutto va come dovrebbe, e, tra bici recuperate, botte da orbi e un amore solo accennato, tutto si concluderà in un divertentissimo nulla di fatto.

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Le produzioni si susseguono a ritmo serrato. Resto in piedi, vicino alla porta: continua ad aprirsi e a fare entrare gente.
Sullo schermo la storia del “Polo Bike Club” di Milano. Mi colpiscono le immagini: luci e colori studiati ad arte, slow motion e fast forward incastonati nel traffico milanese di una brumosissima domenica mattina, musica epica e una sensazione palpabile piena dell’orgoglio tipico di chi ce l’ha fatta che traspare da ogni singolo fotogramma.

Osservo a bocca aperta cercando di entrare nello spirito di uno sport che, fino a pochi minuti fa, non pensavo nemmeno potesse esistere. Eppure eccoli lì, proiettati davanti a me: ragazzi bardati con caschi da hockey, protezioni da moto, bici fixed e mazze da polo. Danzano e si muovono all’interno di un campo cinto da balaustre di legno alte un metro e mezzo e raccontano di una passione che, nata per gioco, ora presuppone ore di allenamento, di equilibrio e trasuda di sfide vissute all’ultimo respiro. Applausi, una volta di più.

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Esco: di nuovo il cortile, ancora quella sensazione di etereo che mi accoglie e dalla quale mi faccio cullare.
Osservo la sala dall’esterno e sento qualche sonora risata filtrare dai muri. Mi incammino e rido anche io: la serata non è finita e il festival ha ancora parecchie storie da raccontare.

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Silenzio e poi rumori indistinti. Buio e pareti bianche. Tubi metallici sul soffitto, corde a delimitare gli spazi e, sulla sinistra, un muro “trompe l’oeil” che regala giochi di luce tra il porpora e il blu elettrico. Due corridoi laterali, una navata centrale, un lungo colonnato dai contorni squadrati e luci abbaglianti che sparano verso l’alto.

Voci, dialoghi, infine sguardi. Ragazzi e ragazze, occhi sgranati e facce imberbi, occhi ammirati ed altri, più decisi che ne incrociano la rotta. Facce di chi è in lotta con sé stesso, espressioni di chi ci crede poco, rammarico di chi ci prova ma non ce la fa e sorrisi mescolati a rabbia dissimulata.

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Caschi, felpe street e tatuaggi old style. Sbucano furtivi da magliette a mezze maniche dai colli slabbrati e dall’aria fin troppo vissuta.

Mani a nascondere il viso dopo l’ennesimo trick non riuscito, smorfie di dolore e “high five” scambiati in segno di giubilo.

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Ruote che atterrano su assi di legno con un rumore sordo, segni di frenate sul pavimento, balaustre metalliche usate come sponde e rampe sulle quali il celeste la fa da padrone. La prima è affollata, cacofonica. Le altre sembrano aspettare, secondo un ordine di apparizione non scritto e improvvisato dall’estro dei singoli.

Un palco, laggiù in fondo. Musica e strumenti da accordare, quattro volti corrucciati e un soundcheck fin troppo pignolo che si mescola, senza logica, ai suoni zanzarati dei Prodigy di “Smack my bitch up”.

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Birra. Il profumo è dappertutto. Tavoli, aroma di panini imbottiti, sfrigolio di carne sulla griglia, un tendone rosso con sopra scritto: “bicilibreria“, una ragazza dall’aria timida che gira con una enorme fotocamera, bancali di legno scuro a fare da posto in prima fila e adrenalina che inizia a salire.

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Il locale è enorme, ha tutta l’aria di essere una vecchia fabbrica rimessa a nuovo e sembra essere il set perfetto di uno di quei video rock industrial alla Marilyn Manson. Banchetti ed espositori disposti ovunque. Storie e invenzioni che, a volerle ascoltare tutte, non basterebbe una settimana.

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Tre ruote girano su loro stesse, illuminandosi di disegni invisibili, due laser rossi a disegnare in larghezza quello che è lo spazio di ingombro di una bici in manovra, borsette e cinture recuperate da vecchi copertoncini, bici da commuting disposte lungo una rastrelliera, volantini di camp ciclistici in terra romagnola, scaffali invasi da bagliori di blu elettrico, due enormi biciclettoni sui quali “instagrammarsi”, maglie da corsa proprie di un ciclismo che fu e un’esposizione di quadri in mezzo ai quali l’idea di Gino Bartali è ricorrente.

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In un caso prende forma in un disegno stilizzato che nasce su una tela a sfondo nero. Bici bianca, barba rossa, espressione corrucciata, naso importante e occhi ridotti a due puntini. Cuffie ben calcate nelle orecchie, berretto vintage a riparare la testa e un Ipod tra le dita in un incrocio tra antico e moderno volto a cercare e canticchiare le parole del Paolo Conte che fu:


Oh quanta strada nei miei sandali, quanta ne avrà fatta Bartali.
Quel naso triste come una salita, quegli occhi allegri da italiano in gita.
E i francesi ci rispettano, che le balle ancora gli girano.
E tu mi fai: dobbiamo andare al cine.
E vai al cine, vacci tu!

 

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La gente passeggia curiosa, fa domande, riflette, si confronta, ride e, in qualche caso, mette mano al portafogli.

Due addette del pronto soccorso siedono su due sdraio giocando coi telefonini, divise a metà tra la noia di una serata di solo presidio e la speranza che non succeda nulla. Un televisore acceso parla di viaggi e di avventure vissute sullo sfondo di uno splendido tramonto estivo. Mi fermo e osservo da una balconata di cemento. Spettatore, per dirla come Jovanotti, di un mondo che “ha dentro un mondo che ha dentro un mondo“.

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Là fuori la sera sta cedendo il posto alla notte e l’aria si è fatta più pungente. Poche stelle, umidità stampata sui vetri e cemento che si fa lucido di una prima patina di ghiaccio. Il contrasto è stordente. Prima di uscire osservo ancora un altro trick: tutto è andato bene. Guadagno l’uscita con le orecchie riempite dal suono degli applausi e delle risate. Una volta fuori, guardo verso il cielo, osservo la luna e mi stringo nel bavero del giubbotto. Chissà fino a quando avranno voglia di saltare…

Vedi anche: la strana corsa delle bici cargo al BFF Milano!
Testo di Massimiliano Lamberti – Foto di Matteo Cappè

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